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LA SCUOLA DI ATENE 1950-60: PAOLA PELAGATTI

Conversazioni del Direttore con gli ex Allievi.

Foto per post

Paola Pelagatti a Festòs negli anni '50, insieme all'operaio Nikos ο Ψηλός (Nico il Lungo)


Paola Pelagatti, dopo la laurea a Bologna con Luciano Laurenzi (ex Allievo e Direttore della Scuola dal 1941 al 1943), è stata Allieva nel 1953 e collaboratrice fino al marzo1961, partecipando agli scavi di Festòs e allo studio della ceramica minoica.

Come era ad Atene?

Ai miei tempi alla Scuola eravamo “tre gatti”.

1. Il Direttore Doro Levi.

2. La signora Levi (Anna Levi Kosadinou), che di fatto “governava la casa”, personaggio forse un po’ “ingombrante”, che aveva tuttavia per gli Allievi benevolenza. Di famiglia greca facoltosa, il padre commerciante di pelli in Russia al tempo degli Zar; con rapporti con la famiglia reale greca, tanto che poteva capitare che al telefono qualcuno chiedesse della kyria Levi dicendo: “έιμι η βασιλομήτωρ της Ρουμανίας” [sono la regina madre di Romania], essendo la stessa anche parente di Filippo di Edimburgo.

3. E io, dapprima come Allieva della Scuola di Roma III anno, poi rimasta come segretaria-bibliotecaria, tutto l’anno.

Non c’era nessun altro impiegato o componente della Scuola, tanto che il Direttore teneva i conti di tutte le spese su un apposito registro (ritirandosi in camera sua per 15 giorni all’anno per poter mandare il bilancio a Roma all’Ufficio della Scuola, che funzionava già presso la Direzione Generale). Levi era molto stimato da Guglielmo De Angelis d’Ossat allora Direttore Generale e anche dal suo predecessore o successore Bruno Molaioli (uno architetto e l’altro storico dell’arte: entrambi “tecnici”, dunque).

Ho un bel ricordo di quegli anni, nonostante qualche “stramberia” della signora Levi.

La bella palazzina ottocentesca era in affitto: l’Italia, da poco uscita da una guerra persa e disastrosa, non poteva permettersi per ragioni di mera economia una sede propria, statale, come le altre Scuole straniere di Atene. La proprietaria era la signora Orphanidi, anziana e di una ricca famiglia di greci di Alessandria d’Egitto, viveva al piano terra, e quello comportava che gli Allievi non potessero entrare dall’ingresso principale ma salissero dal lato posteriore attraverso una scala di servizio, a chiocciola, di ferro (esempio di epoca industriale, e questo suscitava in loro qualche innocua perplessità, soprattutto nei più convinti di un ruolo speciale, di aspiranti studiosi all’estero).

Al terzo piano viveva anche il cosiddetto personale di servizio, una coppia di greci (detti da noi “i gufi”), cortesi peraltro: lei aveva mansioni di cuoca tuttofare, e lui adibito alle pulizie, ma anche con mansioni di cameriere in “polpe” per i rari ricevimenti della Scuola. In pratica e, tutto compreso, nella Scuola: cinque unità.

E a Creta?

D’estate – dopo il primo anno da allieva – stavo a Festòs per schedare i materiali dallo scavo del I Palazzo, non per “studiare la ceramica minoica” (compito esclusivo del Direttore) ma per schedarla. Da qui credo che mi sia venuto l’interesse di base per la schedatura dei reperti, che, poi, ha certo influito sulle mie scelte di archeologa della Soprintendenza. Ritengo che sia stato un lavoro formativo. Queste schede, di media grandezza e rilegate in blocchetti (non quei “lenzuoli” poi imposti dal nostro Ufficio del Catalogo Nazionale, di nessuna praticità) erano state inventate da Doro Levi, con un doppio foglio e “carta copiativa”, affinché il secondo “foglio” fosse staccato e dato  all’Amministrazione greca, l’Eforia di Iraklion, cui sarebbero poi stati consegnati  i materiali, in fine esposti in vetrine al Museo, le più belle vetrine per la ricchezza e originalità degli esemplari medio minoici dallo scavo del I Palazzo Minoico di Festòs (nulla di comparabile con i reperti del Palazzo di Cnosso, come è ben noto, checché se ne pensi).

Stare a Creta significava anche passare giorni nella Casa di Halbherr a Iraklion, quella bella casa con cortili, uno grande con fontana e ala padronale con sala al secondo piano con l’harem, con le finestre sporgenti sulla strada (odòs Halbherr, appunto) ma schermate da griglie verdi in legno a strisce oblique tipiche di un mondo non così lontano, dato che la liberazione dell’isola dal dominio turco era avvenuta all’inizio del secolo. Il Direttore apprezzava molto l’harem che aveva trasformato nel suo appartamento.

In questa casa speciale poteva capitare anche di incontrare singolari personaggi, ospiti di Doro Levi, come l’emiro Chehab, di passaggio tra il Collegio libanese di Parigi e Beirut, che si interessava di archeologia cretese. Un signore piccolo, distinto, che ovviamente parlava francese. In quell’occasione anche Licia e il Maestro Vlad furono del gruppo, venivano da Lemno dove Licia partecipava ai lavori della missione. Iraklion, per gli archeologi era quasi un crocevia, dove passò anche Bernabò Brea.

A Festòs i rapporti con l’Eforia erano ottimi: l’Eforo Nikolaos Platon e il suo secondo Stylianos Alexiou venivano fino a Festòs e pranzavano con noi nella veranda della casa dello scavo, con Levi a capotavola che li intratteneva.  Ma i due erano anche interessati e (quando possibile!) ponevano domande sui famosi “riempimenti” di calcestruzzo post terremoti che determinavano le fasi del Medio Minoico di Doro Levi, che erano, come si sa, in contrasto con quelle di Evans (il suo grande antagonista in pectore). È forse superfluo ricordare che il grande Arthur Evans era morto circa da un decennio, 1943 ed era in realtà a tavola un “convitato di pietra” presente nei discorsi del Direttore quasi ogni giorno. Per la rievocazione di Festòs, Levi e Evans (si fa per dire) un cenno si trova in Sicily 1889, a cura mia, pubblicato nel 2019.

A volte saliva a Festòs anche il professore Sinclair Hood, direttore della Missione di Cnosso, inglese di adeguata famiglia, ma semplice e senza boria, interessato alle idee che ci andavamo ponendo (Enrica Fiandra sulle ricostruzioni del I Palazzo e io sulle fasi della ceramica medio minoica in corso di descrizione).

Si sa che poi tra Levi, Fiandra e Pelagatti i rapporti furono pessimi per ragioni di “Minoico” soprattutto. Ma per quanto mi riguarda, mi piace ricordare che quando potei ritornare alla Scuola, essendo Direttore Antonino Di Vita, e incontravo il Levi ospitato nell’ambiente vicino alle scale, vi erano sempre saluti cordiali. Mi donò ad esempio un estratto, da Parola del Passato, con la dedica autografa “alla più diligente delle mie allieve”. Ai tempi del mio lungo soggiorno ateniese mi chiamava “la Signorina metti dubbio” perché correggevo i numeri che contrassegnavano le stanze del I Palazzo (molte decine) quando il professore li confondeva nelle relazioni annuali dello scavo pubblicate sul Bollettino d’Arte, di cui era direttore. Relazioni che sono ancora utilizzate e considerate importanti in campo internazionale, forse più della editio maior del Palazzo di Festòs, scavi Doro Levi, per ragioni che non è qui il caso di esporre.

Più tardi ho pensato che l’avversione di Levi per i pittori medio minoici di Festòs potesse essere dovuta ai sui studi universitari a Vienna, ai tempi dell’Impero austro-ungarico (prima di Beazley e della Scuola inglese)

Quali erano i rapporti degli allievi con il direttore Levi, con le altre Scuole straniere e con i colleghi greci?

Mediamente buoni. Levi intendeva il suo compito come quello di un professore di università, al I e II anno; per due mesi sistematicamente svolgeva le sue lezioni sulla topografia di Atene, leggendo i suoi appunti scritti in stenografia su un ordinato registro, e poi anche guidava gli allievi sui siti di Atene già illustrati, e anche in Attica (a Ramnunte, Eleusi, e mi pare fino a Corinto) guidando lui stesso un fuoristrada capiente, acquistato, si favoleggiava, in America, di cui era molto orgoglioso  (guidava - come si sa - in un modo un po’ fantasioso). Agli Allievi veniva affidato il tema di una tesina che doveva essere svolta entro l’anno. Io ricordo benissimo la mia sulla Ceramica protoattica: vasi del Ceramico soprattutto, ma anche da Vari, una ricerca di cui poi ho mantenuto memoria e appunti.

La famiglia Levi, lui essendo stato negli Stati Uniti e lei essendo greca, aveva rapporti costanti con le altre Scuole. Emil Kunze (che ricordo per il carattere cordiale, pur essendo uno dei massimi archeologi della sua epoca) era allora Direttore dell’Istituto Germanico. Era sposato con Athinà Drini, grande amica di Semni Papaspiridi Karouzou, moglie di Christos Karouzos, direttore del Museo Nazionale di Atene e lei stessa condirettrice. I Karouzoi – come erano soprannominati – avevano una buona conoscenza dell’italiano e potevano recitare Dante. Semni aveva simpatia per Enrico Paribeni, scherzava sull’accento oxoniense dicendo che “parlava italiano come un inglese”! Questi rapporti portavano i Levi ad essere inseriti nella società greca non solo archeologica ma anche “di mondo”. La Signora Levi faceva visita spesso alla signora Heleni Stathatos, della nota famiglia proprietaria della famosa collezione oggi donata al Museo Nazionale di Atene. Io la accompagnavo spesso in queste visite nella bella palazzina di Vasilissis Sophias, divenuta oggi un Museo. Era molto amica di Pierre Amandry noto per i suoi studi su Delphi.

Anche i rapporti con i Daux erano ottimi. Georges Daux, competente di epigrafia greca e di fama, era anche cordiale, amava come la moglie iugoslava il tennis: i francesi – allora forse i preferiti dall’ambiente archeologico – tenevano la riunione annuale alla presenza dei Reali (il Re Pavlos e la regina Federica, di origini tedesche). Dai Kunze, noti per la grande semplicità, si poteva assistere in ricorrenze varie a concerti dati dai figli musicisti.

Ma anche con i britannici e gli americani c’erano buoni rapporti, anche con gli Allievi (se facilitati dalla conoscenza di qualche lingua). Io ebbi ben presto la possibilità di andare il sabato e la domenica a studiare nella bella biblioteca americana, dato che ero impegnata negli altri giorni della settimana. Come è noto la Biblioteca Americana di Atene è una delle più fornite, anche ora. Ebbi l’occasione di conoscere Virginia Grace, signora delle anfore da trasporto, gentilissima; Homer Thompson (direttore degli scavi americani dell’Agorà dagli anni ’30) e Dorothy Burr Thompson; Eugene Vanderpool, appassionato della topografia dell’Attica, che aveva casa ad Atene, di famiglia facoltosa; e la grande fotografa archeologa Allison Frantz che poi venne anche a Kaukana (villaggio bizantino presso S. Croce Camerina Sicilia). Dorothy Bur Thomson era una massima esperta di coroplastica: una sua visita a Siracusa nella Biblioteca Paolo Orsi in attesa di incontrare Bernabò Brea, con un grazioso cappellino di paglia a tesa breve, forse fiorentino, rimase famosa per la conoscenza che dimostrò anche delle piccole terrecotte siciliane.

Ad Atene conobbi Evi Stassinopoulou Touloupa, amica da oltre sessanta anni. Dormii a casa sua la notte in cui i Colonnelli presero il potere il 21 aprile del ‘67. Alla mattina partimmo sulla Due Cavalli di Paul Aubersin per rientrare in Italia, cioè in Sicilia. Fu Semni Karouzou a farmela conoscere, allora era epimelitria al Museo Archeologico di Atene, perché mi diceva che ero troppo sola ad Atene. Con Evi ci siamo sempre viste e scritte, sono stata spesso anche ospite nella sua casa di Egina. Il marito, Dimitris Touloupas, fu imprigionato e passò un paio di anni al confino a Filiates in Epiro, a Kastrì Kinourias nel Peloponneso e poi un anno nella prigione di Korydallos, Evi andava a portargli il cibo. Alla caduta dei Colonnelli partecipò alla vita politica con il PASOK di Andreas Papandreou.

Hai anche lungamente collaborato in Sicilia con un altro insigne “ateniese”: Luigi Bernabò Brea, che a Lemno ha scavato il Kabeirion di Chloi e Poliochni, cui ha dedicato due volumi tra i più importanti e prestigiosi della Scuola. Che cosa hai imparato da lui?

Bernabò Brea era di una famiglia di notai di Genova, e così fece prima “legge” e poi lettere-archeologia. Questo gli diede una preparazione tecnico-giuridica, per cui faceva le controdeduzioni ai ricorsi e alle denunce di proprietari come se dovesse scrivere un articolo. Caso raro. Aveva anche lui un legame stretto con la Grecia, per via di Poliochni, dove andava in missione con tecnici della Soprintendenza per 4 mesi. Solo se c’era un carico di spaghetti altrimenti cibi greci nulla. Erano Bottaro, detto Tatai (Gaetano), che aveva scavato alle Arene Candide e da bravo siciliano si credeva di essere, in assenza di Bernabò Brea, la sua copia con la stessa autorità. Poi il cavalier Giucastro disegnatore massimo, anche se piccolo di statura. Famoso restò l’episodio del rinvenimento degli ori che avvenne quando ancora Bernabò Brea non era arrivato a Poliochni e i due “giannizzeri” si racconta che difesero il malloppo dagli operai greci mal intenzionati. La scoperta fu subito annunciata da Bernabò Brea sull’Illustrated London News con tanto di foto degli ori di Poliochni e per confronto con la foto evocativa di Sophia Schliemann con corona d’oro in testa. Bernabò Brea era un “europeo” ante litteram.

Sapeva creare una squadra, per la semplicità innata dei modi e la disinvoltura a portare cassette di scavo, come se fossero piume, attraversando Piazza Duomo a Siracusa fino al Deposito dietro il Museo Bellomo. Per i siciliani chic era una cosa inconcepibile (raccontato da Santi Luigi Agnello a me).

Sì credo di aver imparato da lui il mestiere dell’archeologo (della Soprintendenza), mestiere diverso da quello nell’Università, dove ci sono sempre più teorici, magari preparati, ogni pregiudizio a parte.

Altro punto era che, pur essendo un preistorico riconosciuto in Europa (si può leggere Storia della preistoria di Alessandro Guidi), poteva spiegarti le caratteristiche della sigillata o altre classi ellenistiche o romane, ma anche scrivere articoli completi su una chiesa bizantina di Lipari, sua terra di elezione. La sua bibliografia insegna molto del nostro mestiere (è riunita in modo utile e pubblicata per il premio I cavalli d’oro di San Marco, ricevuto nel 1993, con prefazione di Gustavo Traversari, l’esimio studioso che aveva inventato il premio pubblicato in una serie graziosa e utile).

Un episodio. Anche Bernabò Brea passò da Iraklion al termine di una missione a Lemno, con la signora Chiara, buona viaggiatrice, e venne a Festòs in autunno quando eravamo ancora lì Fiandra ed io (Bernabò Brea non era mai stato a Festòs) e parlammo a lungo di come si doveva affrontare lo scavo del I Palazzo, nostro cruccio. Lui ci spiegò come avrebbe proceduto (ti racconterò un'altra volta) ma poi io, dopo il rientro in Italia, avendomi Bernabò Brea affidato lo scavo di Naxos (un tempio) e poi del tempio ionico a Siracusa lo scavai procedendo per quadrati, il sistema inglese che Paul Courbin aveva importato in Grecia, ma (bontà mia!) non era il sistema giusto per un tempio (lo capii dopo).  Dovrei ricordare che Bernabò Brea voleva che a Siracusa (dove lui non scavava) si mostrasse al Comune (sotto il Palazzo Comunale) come si doveva scavare con metodo (forse non aveva una gran considerazione per gli scavi di Gino Vinicio Gentili, peraltro una brava persona, che stava per essere promosso e andare a Bologna). Passò da Naxos anche Carandini e allievi (di cui si sapeva già allora l’interesse per i metodi di scavo, una novità per l’Italia) e fu, mi pare, attento a come avevo proceduto (da grand seigneur, quale è senza dubbio, discusse e mostrò di apprezzare, almeno didatticamente, la soluzione adottata).

Sì, ho imparato molto da quel Soprintendente in grado di tenere lezioni anche agli universitari, e certo non tutti, al tempo, erano così.

Come vedi la Scuola nel quadro dell’archeologia italiana?

Non saprei dire per gli allievi: forse dal “libretto rosso”, meritoria opera di Vincenzo La Rosa, si potrebbe ricavare una di quelle tabelle a colonne tanto di moda oggi, che dia in sintesi informazioni esaurienti degli esiti delle diverse carriere degli allievi. Ma credo che abbiamo entrambi altro da fare!



Casa Halbherr

La casa della Scuola a Iraklion, acquistata nel 1927


 Casa Missione Festòs

La casa della missione a Festòs, costruita nel 1931 e ampliata negli anni '50


Archivio

Scuola Archeologica Italiana di Atene

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