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LA SCUOLA DI ATENE 1950-60: LUIGI ROCCHETTI

Conversazioni del Direttore con gli ex Allievi.

LUIGI ROCCHETTI

Luigi Rocchetti


Luigi Rocchetti, laureato a Firenze con Ranuccio Bianchi Bandinelli, è stato allievo della Scuola nel 1958 insieme a Piera Bocci, Ercole Contu e Franco Garetti. Ha poi continuato a collaborare con il direttore Levi, anche per gli anni successivi, negli scavi di Creta a Festòs e Kamilari (la necropoli è stata appena pubblicata dalla Scuola insieme ai suoi taccuini).

Come fu l’arrivo in Grecia?

Per noi quattro allievi e futuri archeologi la Grecia cominciò in un marzo piovoso, su un povero battello da carico che faceva anche servizio passeggeri fra Brindisi e il Pireo. Era una nave molto modesta, si chiamava Epiro, e con la sua prua tagliente fendeva valorosamente le onde che, appena fuori dal porto, il vento ingrossava. In quei tempi la Scuola di Atene, per prudenza, o anche per risparmio date le alte tariffe, non permetteva l'aereo. Non essendo mai stati su una nave giravamo senza meta per perlustrare il battello; data la sua piccolezza ci ritrovavamo sempre allo stesso punto.

Dopo qualche ora apparvero le deserte cime dell'Albania; altissime spume bianche segnavano la linea della costa, il mare s'ingrossò, e nel salone vi fu come un terremoto: tutto scivolava in ogni direzione; anche per il piccolo equipaggio era impossibile reggersi in piedi. Ercole che era sardo e quindi pratico delle traversate marine ci disse di stare tranquilli e si distese sul suo letto a castello sotto il quale riposava la Piera; con il crescere del mal di mare Ercole cominciò a vomitare sopra i rossi capelli della Piera, che gridava come un'ossessa prima di mettersi a piangere.

L'ingresso nel golfo di Patrasso fu eroico, il vento ci fece accumulare ore di ritardo e il comandante fermò il battello nel porto della città da dove un pullman ci avrebbe portato ad Atene. L'autobus era più malandato del battello. Sotto il diluvio, sul tipo di quelli filmati da Theo Angelopoulos nei suoi film, intravvedemmo, da insegne fiocamente illuminate, i nomi antichi di Sicione, Corinto, Megara, Eleusi. La Grecia di quegli anni era veramente povera e arretrata, anche rispetto all'Italia.

Arrivammo ad Atene a mezzanotte circa, ci aspettava Kostas il buon custode della Scuola. A quell'ora così tarda, e con la pioggia battente, il traffico e le luci di Atene, degne di una metropoli, mi fecero una grande impressione. Alla Scuola la moglie del Direttore, con l'aria un po' seccata per l'ora, si informò su ciascuno di noi; la Piera, l'unica donna borsista le disse: “Badi che io sono una peste”, al che lei rispose semplicemente: “Vedremo”, e ci condusse nelle nostre stanze che erano al piano superiore.

L'edificio della Scuola era in Leophoros Amalias, un grande viale molto trafficato diretto in periferia. Parte dell'edificio era in legno e un buon profumo di antico legname donava un senso di solennità e raccoglimento a un piccolo ingresso da cui una scala lignea di nobile fattura saliva a una sala poco illuminata, senza finestre, con alte pareti ricoperte di serie di riviste di archeologia classica e di libri, che avvolti sempre nel silenzio, incutevano una certa soggezione.

Dalla mia stanza che dividevo con Ercole, l'altro borsista, si vedeva il teatro di Dioniso e un angolo dell'Acropoli. Il che bastò a non farmi sentire la stanchezza, tanto che alle prime luci di un'alba gelida (era marzo), mentre ancora tutti dormivano, uscii, e fra i ruderi del teatro di Dioniso, aperto al pubblico, incontrai una madre che incitava il figlio che faceva tardi a scuola chiamandolo per nome “Evripidiiiii” [Euripide] al che il bimbo rispondeva “erchomai” [vengo]: ovviamente le mie emozioni aumentarono fino a una specie di commozione.

Come passavate le giornate?

Il Direttore, nativo di Trieste, era di piccola statura ma di infaticabile attività; ci faceva lezione tre volte a settimana. Erano lezioni per lo più di topografia sull'Atene classica e l'antica Eleusi; quest'ultima ci fece naufragare in una disordinata congerie di murature, aggiunte, ricostruzioni molto difficili.

Con la primavera visitammo i dintorni della città. Il professore ci portò a Maratona in una splendida giornata di sole fra campi rossi di papaveri. Noi ascoltavamo la spiegazione, poi quando il professore si stancava, cercava un albero sotto cui sedersi, apriva un cartoccio e faceva placidamente la sua colazione in silenzio. Intanto dall'Eubea, di fronte a Maratona, piccole barche di pescatori venivano a vendere del pesce.

Noi quattro allievi visitammo il Peloponneso; impiegammo 20 giorni a fare quel giro, a volte molto impervio, soffermandoci a Corinto, Micene, Olimpia, Basse. A Olimpia dovetti a lungo interrogare me stesso per cercare di capire l'origine di tali perfezioni, ma non ebbi alcuna risposta: certa bellezza era inspiegabile. La stessa cosa mi succedeva con alcuni quadri agli Uffizi, con Michelangelo, e, in musica con Bach.

Tornati ad Atene io feci una relazione sull'Areopago. Si studiava  fino a quando il cielo sopra l'Imetto diventava di uno splendido colore viola. E allora salivamo sull'Acropoli, che a quel tempo era aperta sempre, anche di notte. Nel sottostante teatro di Erode Attico, con la bella stagione, c'era una buona rassegna di concerti sinfonici, molti dei quali diretti da Mitropoulos che ascoltavamo nascosti dietro certi cespugli sulla sommità della cavea. Fu lì che nacque il mio amore per Mahler, che però non andava per niente d'accordo con quanto mi circondava. Dall'alto dell'Acropoli si scorgeva una città immensa, che la sera brillava di luci come una Hollywood vista al cinema, fino al mare del Falero e del Pireo con i gran pavesi delle navi alla fonda, o alla periferia di Eleusi.

Il pranzo era servito da Kostas, in marsina, con una eleganza da Grand Hotel; ricordo delle splendide “taramosalates” [purea di uova di pesce] di cui eravamo ghiotti.

Poi partiste per Creta, cui ha dedicato anche un libro di ricordi: Ore Cretesi.

Ad agosto partimmo tutti per Creta. Venne con noi anche il Professore. Viaggiammo di notte e nel grigiore dell'alba l'isola si profilò all'improvviso, vicina al battello, con la sua alta catena montuosa, misteriosa e come corrucciata da sembrare assolutamente deserta. Invece Heraklion era un approdo importante, una città ricca di palazzi, ristoranti, alberghi, banche, e mi sembrò molto vitale. Visitammo il museo e poi partimmo per Festòs sulla costa meridionale dell'isola. La strada lasciava dietro di sé una periferia disordinata e povera e saliva lentamente, come svogliata, fino alla località di Haghia Varvara, non lontano dagli scavi italiani di Priniàs. Da lì appariva all'improvviso, in tutta la sua ampiezza la Messarà, la grande pianura di Creta centrale chiusa a sud dalla catena dei monti Asterusi. Si incontravano spesso asinelli che portavano una donna che allattava un bambino, trascinati da una lunga corda stretta da un contadino: pensai subito alle “fughe in Egitto” del nostro tardo medioevo e a qualche tavoletta di Biccherna di scuola senese.

A Festòs ci dettero il benvenuto Enrica Fiandra, architetto del piccolo museo locale, e Paola Pelagatti, che sorvegliava i restauri dei materiali rinvenuti nello scavo dell'anno precedente. La spiegazione che il professore ci fece del palazzo era piena di un affetto nato dalla lunga dimestichezza con il luogo che, in posizione stupenda, copriva una collinetta da cui lo sguardo poteva dilagare per tutta la pianura fino ai contrafforti degli Asterusi, o, volgendosi al nord, quasi lambire con soggezione il monte Ida, altissimo e deserto, che con la sua altezza sorvegliava l'isola e tutti i suoi miti.

Cominciammo a scavare subito, il giorno successivo. Ogni allievo aveva tre operai a disposizione, uno per la piccozza, uno per il badile e l'altro per la carriola che portava via il materiale. Gli operai erano tutti molto solerti, incuriositi di questo lavoro nuovo; provenivano tutti dai paesi vicini, molto poveri, attratti dalla paga settimanale degli italiani. Li sentivo arrivare, presto al mattino, sugli asinelli che s'inerpicavano in silenzio sulla collina; nell'attesa (il lavoro iniziava alle sei e mezzo) parlottavano fitto fra loro sempre a voce bassa.

Mi fu assegnato lo scavo di una trincea sul lato nord del palazzo all'ombra di un boschetto di pini che profumava di resina. Io non avevo mai scavato, né il professore ci consigliò sul come agire. Fu l'operaio con la piccozza, che si sentiva importante per il suo lavoro, a dare le prime picconate. Il terreno in quel posto risultò assolutamente sterile, mentre le trincee della Piera e di Ercole, vicine al palazzo, già dal primo giorno restituirono frammenti e frammenti di cocci. Vedendomi abbattuto il professore pensò di sollevarmi dicendo che anche il trovare nulla era utile.

Pensandoci ora, dopo aver scavato abbastanza, il fallimento della mia prima esperienza sul campo, segnò per sempre una mia certa disaffezione per lo scavo, per il tanto tempo speso al rinvenimento di materiali inutili per una cronologia, intorno ai quali con uno scopettino si ripuliva la terra cercando di individuare lo strato. Lo scavo è una prova di pazienza, qualità che in me era messa a dura prova. Ammirai e seguii attentamente un mio collega dell'anno successivo, Giovanni Colonna, che chiamai il Toscanini degli archeologi, il quale in ogni palata di terra leggeva anche il minimo evento tipo un focherello di pastori in un giorno di freddo. Il che per me era impossibile. Da parte mia preferivo le visite ai musei e lo studio dei monumenti antichi.

Per compensare questa mia mancanza aiutai il professore nei conti settimanali dello scavo, tra cui la paga degli operai che era, mi sembra, di quattro dracme giornaliere. La velocità con cui il professore faceva i conti mi sbalordì: sottraeva, addizionava, moltiplicava passava in un attimo dalle lire alle dracme, talvolta ai dollari; in tre quattro minuti faceva quello per cui io impiegavo un'ora. Gli dissi che la paga era un po' misera, ma mi rispose che la Scuola non poteva dare di più.

Ogni settimana Clelia [Laviosa], l'assistente del professore, andava a Moires, un paesotto nei pressi, per la spesa. A volte, insieme al Direttore Clelia partiva per Heraklion e allora dall'alto di Festòs con cenci e lenzuola salutavamo, dalla collina, l'automobile che nella piana s'allontanava.

La domenica andavamo tutti insieme al mare, a Matala, una profonda insenatura fra alti scogli dove, a quei tempi, accorrevano molti “figli dei fiori”. Mangiavamo tutt'insieme su un tavolone sotto un bel pergolato; era il momento delle confidenze, dei ricordi degli anni passati e dei battibecchi molto spiritosi tra il professore e la Fiandra su quel dato muretto che era apparso inaspettatamente sullo scavo e che sembrava un'aggiunta tarda per il professore e invece era contemporaneo per l'architetto. Il professore raccontava dei suoi scavi in Toscana, a Chiusi, della sua vita a Firenze dove era diventato amico di molti letterati delle Giubbe Rosse, di Montale, Ugo Oietti, Rosai, Bianchi Bandinelli e Ragghianti e di serate eleganti nelle ville sui colli fiesolani. Poi tutto finì e Levi dovette fuggire negli Stati Uniti, a Princeton, dove pubblicò quella che ritengo la sua opera principale: I mosaici di Antiochia. Tornò in Italia a guerra finita e Bianchi Bandinelli lo scelse come direttore della Scuola Archeologica di Atene che durante la guerra era stata devastata. Questi racconti, insieme a quelli della Pelagatti e della Fiandra, ci facevano conoscere il variegato mondo dell'archeologia e i molti personaggi di cui sentivamo parlare.

Maria e Vangeliò, due giovani donne di Vori, cucinavano per noi sotto la guida della Clelia e, a tavola, ci servivano con grande delicatezza. La nostra giornata finiva verso le dieci di sera. Avevamo come letti delle brandine da campo piuttosto scomode che, in me, accentuavano la tendenza all'insonnia.

Una mattina ascoltai gli operai lagnarsi per la bassa paga; il più infuriato di tutti era un giovane, Leonidas, che veniva da lontano. Quando fu pieno giorno venne da me a reclamare; non sapendo cosa fare gli consigliai, al momento del pagamento, di rifiutare la somma. Quando, all'ora della paga, ricevette le quattro dracme, fece il viso feroce e le gettò in faccia al direttore tra la costernazione di tutti. Leonidas venne licenziato ma la paga per gli altri operai fu aumentata di qualche dracma. Il Professore non venne mai a sapere di questo mio incoraggiamento alla “rivolta”.

Il mio scavo quell'anno non dette alcun risultato. Dopo un mese ci accingemmo a tornare ad Atene. Lasciare Festòs mi metteva addosso una grande melanconia, perché perdevo tanti amici fra gli operai: Leonidas venne a baciarmi la mano; le due donne di servizio piangevano a dirotto; due fratelli dal vicino villaggio di Haghios Yannis, chiamati Niko il Lungo e Niko il Corto, mi regalarono delle uova fresche; il restauratore, mastro Vassilis, si asciugava le lacrime.

Ai primi di settembre ad Atene dovemmo preparare il viaggio al nord, in Macedonia ed Epiro. Poi, verso la fine dell'estate visitammo le isole di Rodi, Coo, Santorini, e Delo dove incontrammo Greta Garbo che visitava gli scavi con Onassis. Eravamo vicino alla scadenza della nostra borsa di studio e cominciavo ad avvertire tutta la tristezza del distacco.

Bianchi Bandinelli è stato per lei “maestro e donno” e dopo la Scuola di Atene ha collaborato con lui all’Enciclopedia dell’Arte Antica, una grande impresa culturale realizzata in poco tempo (sette volumi dal 1958 al 1966).

Tornato in Italia ripresi la mia attività con l'Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, collaborando con Bianchi Bandinelli all'Enciclopedia dell'Arte Antica. Fu un periodo di ricerca e di studio sereno e severo sotto lo sguardo attento di Bianchi Bandinelli, che sorvegliava tutto con paterna benevolenza e una profonda saggezza. Il Professore indagava sempre i suoi temi preferiti, ossia la formazione della scultura classica e il suo disfacimento nel tardo Impero.

Miei colleghi di stanza erano Antonio Giuliano assistente del professore, Carlo Bertelli esperto di arte paleocristiana, e Maria Luisa (detta Marilù) Matini addetta alle illustrazioni, già mia compagna a Firenze. Marilù era figlia del primo violino dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e spesso a casa sua si potevano incontrare De Sabata, il giovane von Karajan, Furtwaengler, e Arturo Benedetti Michelangeli, giovanissimo. Quando nella stanza non c'era nessuno, sotto voce canticchiava l'Ave Maria dall'Otello o la Morte di Isotta con accenti struggenti; quell'aria di mestizia che sempre l'avvolgeva era forse dovuta al sogno irrealizzato quale era la musica.

Io dovevo cercare e fare ricalcare le piante delle città antiche, dei templi, dei teatri, delle terme etc. Una signora bravissima le riportava su un lucido. Il lavoro all'Enciclopedia si vedeva crescere di giorno in giorno fino alla fine dell'anno, quando il volume era pronto per le stampe con grande giubilo di tutti.

Il prof. Bianchi Bandinelli mi offrì la sua grande amicizia: spessissimo ero a casa sua o a cena in qualche ristorante da lui preferito. Quando a teatro c'era Eduardo de Filippo io lo accompagnavo insieme alla signora: Eduardo per Bianchi Bandinelli rappresentava il massimo dell'arte teatrale. Il prof. Levi era invece un patito di Alberto Sordi e già dalla Grecia si informava se c'erano suoi film in giro.

Il mondo dell'Enciclopedia era un mondo armonioso e colto; ricordo che dopo certi periodi di vacanza tornavo sempre volentieri al lavoro.

Poi feci un concorso al C.N.R., lo vinsi, e cominciò un periodo molto triste per il lavoro; forse dipendeva da me, dalla mia educazione, ma non andavo d'accordo con i colleghi dell'Istituto, vedevo ovunque falsità e menzogne, in una sequela burocratica cui non ero abituato. Dopo una decina d'anni in cui scavai ancora a Creta, andai in pensione e non rimisi più piede da quelle parti.

Come fu la partenza dalla Grecia?

La Grecia mi aveva conquistato con il suo cielo terso, riflesso di un mare da cui nascono coste e isole dai paesaggi incantati nella loro essenzialità; forse proprio queste armoniose coincidenze furono una delle cause per la creazione di un'arte esempio di una umanità unica nel mondo antico, che ancora oggi riesce a commuoverci dopo ben due millenni. La dote principale della Grecia è la generosità, la prodigalità delle innumerevoli bellezze unita a una ospitalità semplice e sincera, leale nell'amicizia e buona e affettuosa come un familiare. La Grecia è un arricchimento umano.

Colmo di una infinita tristezza lasciai Atene ai primi di dicembre su una elegante e lussuosa nave italiana che ci portava a Napoli. Il battello era molto fine e snello e riusciva a passare lentamente per l'istmo di Corinto. Una capretta che pascolava in cima a un praticello mi salutò belando, mentre gli occhi mi si empivano di lacrime.

La Grecia fu la grande e fondamentale esperienza della mia giovinezza, che per mia fortuna ho potuto ripetere varie volte.



SAIA BANDO 1958 1

SAIA BANDO 1958 2

Bando di concorso per borse di studio presso la Scuola Archeologica Italiana di Atene, anno 1958


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