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IN MEMORIAM ELISA LISSI CARONNA

Torino, 27.XII.1926 - Roma, 28.XII.2020

Elisa Lissi Caronna, laureata a Torino in letteratura greca con Angelo Taccone, è stata allieva della Scuola nel 1959, insieme a Laura Fabbrini e Liliana Mercando.

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Elisa Lissi Caronna  al 20° Anniversario del Museo Archeologico Nazionale di Locri


INTERVISTA DEL DIRETTORE DELLA SAIA A ELISA LISSI CARONNA DEL 23.XI.2020

Dal 1909 al 1960 la Scuola ha accolto 82 alunni e 41 alunne, con un rapporto di 2 a 1 (oggi la proporzione è di 234 a 219). Alle allieve è stato dedicato anche un libro di Giovanna Bandini, Lettere dall’Egeo (2003). C’era differenza alla Scuola tra maschi e femmine?

Non mi parve che vi fosse alcuna differenza tra maschi e femmine. Aveva vinto il concorso, per il posto di architetto, Gizio Purchiaroni. Era presente alle lezioni di Levi ma, naturalmente, era più interessato ai monumenti che alle statue o ai rilievi, per cui, quando Laura Fabbrini e io andavamo al Museo Nazionale o al Museo dell’Acropoli, egli non veniva con noi. Gli incontri erano quasi sempre solo a pranzo o a cena, serviti dai due incomparabili Kostas e Maria, che conoscevano i nostri gusti e ci preparavano quello che a noi particolarmente piaceva.

Era presente alle lezioni di Levi anche Giacomo Manganaro, che non aveva vinto il concorso per la Scuola perché non aveva presentato l’elenco delle sue già numerose pubblicazioni (vincerà l’anno dopo, presentando l’elenco). Non abitava con noi nella sede della Scuola, ma partecipava attivamente a tutte le iniziative. Diede a Laura Fabbrini e a me lezioni di greco moderno (che conosceva perfettamente essendo stato, l’anno prima, “lettore d’italiano” all’Università di Salonicco). Quando Levi mi comunicò l’argomento della mia esercitazione (I monumenti di periodo romano di Atene) e cominciai a percorrere le tante strade di Atene e mi parve, in qualche caso, di trovare frammenti di epigrafi inedite. Avvisai Manganaro che fu molto sollecito nel verificare se fossero veramente inedite (e lo erano).

La sede della Scuola era allora in Leophoros Amalìas 56 e occupava i tre piani della notevole costruzione. A pianterreno vi erano i locali di rappresentanza, al primo piano l’alloggio del Direttore e la biblioteca, al secondo piano l’alloggio per gli alunni. Non era permesso agli alunni di usare l’ingresso su Leophoros Amalìas: vi era, sul retro della costruzione, un secondo ingresso che offriva una stretta scala a chiocciola per salire ai piani. I servizi non erano particolarmente comodi: era necessario dividerli con Kostas e Maria, ma entrambi si alzavano prestissimo, per cui il disagio non era molto.

Laura Fabbrini ed io dividevamo una stanza ampia, con splendida vista sull’Olympieion ed era sempre uno splendido spettacolo, al mattino, vedere il sorgere del sole ed alla sera vederne il tramonto. Quando giunse tra noi Liliana Mercando (vincitrice della borsa di studio della Scuola di perfezionamento di Roma) le fu assegnata una stanza con vista sul Partenone. Eravamo quindi, per l’assegnazione delle stanze, delle privilegiate. All’architetto Purchiaroni era stata assegnata una stanza senza una vista particolarmente interessante.

Polibio diceva che “l’indagine in prima persona richiede duro lavoro e grande fatica, ma è estremamente preziosa ed è l’attività più importante della ricerca”. Quali erano le “indagini in prima persona” che la Scuola affidava agli allievi, compresi i viaggi (immagino abbastanza movimentati)?

Per i viaggi in Grecia il Direttore stabiliva le date e gli itinerari. Laura Fabbrini, Liliana Mercando e io ci dividemmo i compiti, preparando una specie di calendario-itinerario, seguendo il Guide Bleu ma non trascurando di andare in biblioteca per approfondire alcuni argomenti. Gizio Purchiaroni non venne con noi ma rimase ad Atene. L’accordo tra noi era quasi perfetto, anche se qualche volta Laura Fabbrini preferiva uscire da sola. A Lesbo ci fece molto preoccupare: era caduta, aveva una profonda ferita alla testa, era stata in ospedale, le avevano fatto una grossa fasciatura a turbante e le avevano raccomandato di stare in assoluto riposo. Era invece uscita, senza avvisarci: era già passata buona parte della notte, Liliana Mercando e io eravamo preoccupatissime non sapendo come poterla raggiungere. Finalmente arrivò in albergo e ci disse che era stata in riva al mare, a contemplare la luna.

A Delo ci colse una tempesta terribile. Era impossibile ripartire. Dormimmo tre notti in uno stanzone dove i divisori tra letto e letto erano formati da lenzuola che pendevano dal soffitto; un poco distante da noi dormiva anche il custode degli scavi. Finalmente al quarto giorno la tempesta diminuì d’intensità e potemmo affrontare il viaggio di ritorno, ma “sotto coperta”, cioè sotto un telo impermeabile, distese sul fondo della barca. Il telo che ci ricopriva non era del tutto impermeabile.

Tra le città da raggiungere durante il viaggio al nord non era prevista Olinto. Presi la decisione di raggiungere Olinto: dovevo vedere le case della città perché avevano molto in comune con quelle di Locri Epizefiri. Il giorno dopo la mia gita ad Olinto scrissi al prof. Levi (allora era difficilissimo telefonare). Temevo, tornando ad Atene, un suo giusto rimprovero per la mia iniziativa. Fu invece molto comprensivo.

Uno dei ricordi più vivi dei viaggi per mare è quello di ”come si viaggiava”. Abitualmente non si sapeva dove potersi sedere e si finiva seduti sulle assi del ponte, tra un insieme di polli legati tra loro, al collo con una fune, o tra persone avvolte in una coperta, che dormivano sodo, rotolando in quel breve spazio loro concesso.

Il periodo cretese è stato uno dei più interessanti: gli scavi si svolgevano in agosto, cioè nel periodo più caldo dell’anno, e quindi era necessario, al mattino, trovarsi molto presto sullo scavo (il lavoro si interrompeva alle ore 10, per riprendere poi nelle prime ore del pomeriggio). A Festòs trovammo Clelia Laviosa, Paola Pelagatti ed Enrica Fiandra. Al nostro arrivo sull’isola c’era un’automobile con autista, messo a nostra disposizione dal Professore, che ci portò a visitare i luoghi archeologicamente più importanti. Giunte a Festòs, il Professore ci illustrò le zone in cui stava scavando e poi chiese a ciascuna di noi se avessimo delle preferenze per il luogo in cui scavare. Io gli dissi che non avevo alcuna preferenza, anche perché «ero sempre stata molto fortunata», frase che Doro Levi ricordò quando fui “veramente” fortunata.

Mi fu affidata una zona dove vi era un insieme di terra nerastra, alto circa cm 80, spesso cm 50. Lo scavo, fino in quel punto, era stato condotto l’anno prima dall’allievo che aveva vinto il concorso per la Scuola. Asportata la terra mi trovai di fronte a una specie di galleria, alta circa cm 70, entro la quale, adagiati su di uno strato di sabbia, vidi molti vasi intatti. Non credevo ai miei occhi. Avvisai immediatamente il Professore e dopo poco tempo arrivò anche Paola Pelagatti che si trovava nel magazzino catalogando materiale archeologico. I vasi furono asportati dalla “galleria” con ogni cura. E qui, con vero piacere, devo ricordare questo episodio. Paola Pelagatti vide tutti i vasi che uscivano dalla “galleria”, tra i quali vi era il frammento di un ampio piatto. Lo prese in mano, lo guardò e disse: «Questo appartiene certamente al piatto che si trova in una delle vetrine del Museo di Iraklion. Domani parto per Iraklion». Al suo ritorno mi disse “attacca perfettamente”.

Il periodo trascorso a Festòs fu istruttivo e divertente. I pranzi e le cene erano in comune con il fotografo, il disegnatore, alcuni operai specializzati. La tavola, lunga e stretta, era sotto un pergolato, dal quale, ogni tanto, cadevano sulla tovaglia, o nel piatto, cicale o insetti con le ali. I posti a tavola erano abitualmente fissi: capo-tavola era, naturalmente, il prof. Levi e alla sua destra Clelia Laviosa, Dividendo io la stanza con Clelia, godevo di un privilegio notevole: il Professore, prima di scendere allo scavo si fermava, nella stanza, a bere un caffè con Clelia, e di questo “rito” anch’io facevo parte.

Era mia abitudine lavare il materiale archeologico che trovavo e sistemarlo con un certo ordine (il mio!) nelle cassette, di cui ero gelosissima. Avevo seguito il corso di tecnica di scavo a Bordighera con Nino Lamboglia ed avevo scavato con lui a Ventimiglia ed a Tindari; avevo scavato al Foro Romano con il prof. Salvatore Puglisi e con lui avevo sostenuto, alla Scuola di Roma, l’esame di tecnica dello scavo stratigrafico, avevo alle spalle cinque campagne di scavo a Locri. Il prof. Carlo Anti, con il quale avevo avuto un breve periodo di lavoro, mi aveva definito, quando parlava di me con Gaspare Oliverio “la signorina cocciara” Un giorno scoprii il prof. Levi con le mani nelle “mie” cassette di cocci. Dimenticai che mi trovavo di fronte al Direttore della Scuola e la mia reazione fu piuttosto violenta. Il professore, con estrema cortesia, mi ricordò che il Direttore era lui e che aveva il pieno diritto di vedere quello che gli allievi trovavano. Abbassando il capo gli chiesi di perdonarmi. Pochi giorni dopo fu programmata, per gli allievi, la gita in una zona non molto distante dove era stato rinvenuto un grande tumulo. Ci accompagnava Clelia Laviosa, il Professore rimaneva a Festòs, ma fu presente alla nostra partenza. Stavo per entrare nell’automobile quando mi si avvicinò e sorridendo mi disse: «Vada tranquilla. Non metterò le mani nelle sue cassette».

Molto spesso, quando il Professore desiderava che gli altri presenti non capissero, parlava con Clelia Laviosa in inglese. Liliana Mercando, Enrica Fiandra e io, le tre piemontesi, decidemmo, quando non volevamo che altri capissero ciò che si diceva, di parlare in “piemontese arcaico”, il dialetto che parlavano le nostre nonne, cioè non inquinato dai neologismi italianizzanti che già si erano introdotti nel dialetto. A uno dei nostri discorsi era presente, tra gli altri, anche Doro Levi. Ci guardò stupito: egli, poliglotta, non aveva capito ciò che noi tre dicevamo. La cosa ci divertì molto ed ogni tanto noi parlavamo in “lingua sconosciuta”.

In periodi di poco precedenti vi erano stati, nella zona, molti terremoti. Anche noi fummo svegliate, alcune notti, dal movimento dei nostri letti. Non lontano dal Palazzo vi erano delle tende sotto le quali dormivano alcune famiglie rimaste senza casa a causa dei terremoti, o molto paurose: qualche volta, la sera, ballavano il “sirtaki” ed invitavano anche noi a ballare con loro. Il ritmo era facile, ci tenevamo per mano, formando un cerchio, ed in poco tempo avevamo imparato a ballarlo quasi perfettamente.

Desidero chiudere l’argomento “Scuola di Atene” con un’affermazione che certamente Laura Fabbrini e Liliana Mercando avrebbero condiviso se ancora fossero in vita: Paola Pelagatti fu per noi tre “la stella polare”, la persona alla quale, con piena fiducia potevamo sottoporre le nostre difficoltà e i nostri dubbi. Le sue risposte, erano sempre dettate dal buon senso e dall’esperienza e quando si trattava di problemi scientifici dalla perfetta conoscenza del materiale. Quando Laura Fabbrini e io sbarcammo al Pireo, trovammo Paola che ci aspettava per condurci ad Atene, alla Scuola. Considerammo il fatto come cosa comune e non pensammo che invece era un atto di squisita cortesia, che era stato compiuto proprio per noi, sue compagne di studi a Roma. Gli altri allievi erano sempre sbarcati al Pireo senza alcuno che li aspettasse e avevano dovuto superare le prime difficoltà in un paese per loro ancora sconosciuto.

Ha strettamente collaborato con altri due allievi della Scuola: in Calabria negli scavi di Locri Centocamere con Gaspare Oliverio (“ateniese” nel 1913) e poi ai Lincei con Paola Zancani (ad Atene nel 1927). Che cosa dicevano della Scuola?

Non parlai mai della Scuola di Atene con Gaspare Oliverio. Anche se il mio discorso con lui era rivolto esclusivamente a Locri, qualche volta egli mi parlava brevemente dei suoi lavori a Cirene. Non mi posi mai il problema, ma quando egli era già morto, intuii il perché di questo silenzio. Molto sovente Paola Zancani Montuoro e Giovanni Pugliese Carratelli, dopo le sedute ai Lincei, uscivano insieme prendendo lo stesso taxi. Siccome anch’essi abitavano ai Parioli, mi invitavano a salire in macchina con loro: la mia casa è vicinissima a quelle che erano le loro abitazioni. Durante uno di quei tragitti il discorso cadde su Locri e su Gaspare Oliverio. Il prof. Pugliese Carratelli (che era stato alla Scuola di Atene nello stesso anno in cui vi era Oliverio) mi disse: «Sa come lo chiamavamo? Non Oliverio, ma Putiferio!» Pensai quindi che il “periodo greco” di Gaspare Oliverio non fosse stato molto felice e perciò preferisse non ricordarlo.

Anche con Paola Zancani Montuoro (con la quale lavorai ai Lincei per circa dieci anni) non parlai mai della Scuola di Atene, ma sapevo il perché ella preferisse non ricordare. Avevo saputo, raccontatomi da Margherita Guarducci (che era anch’essa, nel 1927 allieva, della Scuola) che Paola Montuoro aveva vinto, insieme con Valentino Zancani il concorso per la Scuola di Atene. Si erano sposati e subito dopo erano partiti per la Grecia. Erano trascorsi non più di sei mesi quando Valentino Zancani si ammalò di tifo e morì. Anche Margherita Guarducci si ammalò di tifo: Paola Zancani Montuoro le fu vicino, nascondendole che il marito era morto, e solo quando l’ammalata guarì, le disse quanto era avvenuto. Anche a me, per poter frequentare la Scuola, venne richiesto il certificato di avvenuta iniezione antitifica.

Nei suoi importanti scavi di Oppido Lucano quali tracce ha trovato dei contatti delle antiche comunità della Lucania con il mondo greco?

I miei fortunati scavi ad Oppido Lucano furono determinati dal fatto che mio marito era nato ad Oppido. Conoscevo, della Basilicata, solamente Potenza e Matera, ma sapevo che ad Oppido era stato rinvenuto un grande frammento della Tabula Bantina. Pochi mesi dopo il mio matrimonio andai ad Oppido e rimasi senza parole quando vidi, in sezione, parte della parete del Monte Montrone, che la strada moderna aveva tagliato. Con il cuore in gola esaminai il terreno soprastante: non era difficile capire che si trattava di una zona archeologica della massima importanza. I “cocci”, abbondantissimi in superficie e molto frammentari, indicavano la presenza di abitazioni, databili intorno al IV sec. a.C. Vi erano anche vasi quasi intatti, quindi provenienti da tombe, questi ultimi più antichi. Della mia scoperta avvisai immediatamente Dinu Adamesteanu, allora Soprintendente della Basilicata, e lo pregai di programmare uno scavo sul Monte Montrone. Le campagne di scavo furono quattro e i risultati furono notevolissimi, anche proprio per la presenza certa, dei contatti, delle antiche comunità locali con il mondo greco.

Alcuni vasi, i più antichi, presentavano una decorazione che doveva essere stata ispirata dal motivo del cefalopode, motivo tipico di vasi micenei. Con tutta probabilità il motivo, ”sbarcato” a Metaponto, salendo il Bradano, pur trasformandosi e assumendo forma stilizzata, era arrivato nel territorio lucano.

Rinvenni anche due epigrafi greche del IV sec. a.C. Erano su due frammenti di vasi a figure nere, appositamente tagliati a forma di rettangolo e con un piccolo foro centrale. Intuendone l’importanza pregai Margherita Guarducci di pubblicarli: risultarono importantissimi. Si tratta probabilmente di “etichette” di un medico, che doveva legarle alla sua valigetta quando si recava da un ammalato. Il particolare interesse è dovuto al fatto che per la prima volta appaiono scritti alcuni termini medici che si conoscevano solo dalle fonti antiche.

Anche un terzo rinvenimento ha contatti strettissimi con il mondo greco. Si tratta dell’ansa di un cratere a volute, con la duplice rappresentazione (da una parte e dall’altra) della protome dell’Atena Parthenos. È di certo di fabbrica oppidana perché uscito difettoso dalla matrice e quindi non esportabile. Ho cercato in vari musei italiani e stranieri e ho consultati volumi nelle varie biblioteche, ma non ho trovato volute di crateri con la protome della Parthenos. Perché solo (fino ad ora) tale rappresentazione sulla voluta di un cratere, certamente fabbricato proprio ad Oppido Lucano?

Qual è il ricordo più bello e il ricordo più brutto del tempo trascorso alla Scuola e in Grecia?

Il ricordo più bello del tempo trascorso alla Scuola e in Grecia? Forse la visione, per la prima volta, dell’Acropoli di Atene. Il ricordo più brutto? La rottura di un osso della gamba sinistra, cinque giorni prima della partenza per l’Italia. Ero davanti alla vetrina contenente gli ori micenei quando persi l’equilibrio. Avevo deciso, in quei cinque ultimi giorni, di rivedere le statue dei due principali Musei di Atene, invece fui riportata alla Scuola in autoambulanza e persi quei giorni riservati a un magnifico ripasso. Avevo delle esperienze precedenti: a sette anni mi ero rotta la gamba sinistra, a ventiquattro la destra, ma intervenne la Signora Levi, che con istinto materno mi disse: «Ci penso io». Venne un giovanotto con una valigetta di bende gessate, guardò la gamba e mi fece una strana ingessatura, assai diversa da quelle che mi erano state fatte in Italia per le precedenti rotture: era una specie di pantofola appuntita con la fasciatura molto stretta fino al ginocchio, ma interrotta da uno spazio libero a metà polpaccio. Laura Fabbrini era già partita e Liliana Mercando doveva ancora stare ad Atene. Fui portata al Pireo, raggiunsi l’Italia sbarcando a Venezia dove mi aspettavano i miei genitori e proseguii per Torino. Desideravo ardentemente vedere come si presentava la mia gamba. Il medico che mi vide mi chiese dove mi avessero fatta quella strana fasciatura, ma quando la gamba fu sfasciata e fu fatta la radiografia, si vide che l’osso rotto si era quasi del tutto ricongiunto e dopo pochissimo tempo potei camminare normalmente.

Desidero ricordare un episodio che si può ancora riferire alla Scuola di Atene. Nel 1961, verso la fine dell’anno, ricevetti una telefonata dal prof. Levi. Era a Roma e mi disse di andare da lui, all’Albergo Inghilterra, dove alloggiava quando veniva in Italia. Mi chiese se ero disposta ad andare ad Atene, alla Scuola, con funzioni simili a quelle svolte per tanti anni da Paola Pelagatti, che era tornata in Italia. Lo ringraziai molto per la sua offerta, ma gli feci presente che io non avevo i requisiti per occupare simile posto, che non parlavo bene il greco e, ragione da non sottovalutare, avevo promesso al prof. Iacopj di riprendere il lavoro nella sua Soprintendenza non appena fossi tornata dalla Grecia, cosa che avevo fatto.

Perciò il Direttore si rivolse altrove.

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Elisa Lissi Caronna, Lettera al Direttore Doro Levi del 24 dicembre 1959, dopo la partenza da Atene


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